Siamo all’inizio del nuovo millennio e i videogame di calcio manageriale spopolano. Tra i banchi del liceo ci si scambiano opinioni su chi schierare, sui colpi da fare e sui calciatori da prendere a poco e che nelle stagioni avrebbero reso molto. È così che ho conosciuto José Antonio Reyes. Era il 2002 e Championship Manager era una vera mania, tutti ci giocavano anche quelli che non amavano il calcio.
Tra una lezione e l’altra, ma anche durante le stesse, ci passiamo foglietti in cui abbozziamo la formazione perfetta e lui c’è sempre. Gioca nel Siviglia, si prende a poco e ha appena 19 anni. Puoi schierarlo al centro di un centrocampo a quattro, puoi metterlo dietro le punte, ma anche come seconda punta, renderà sempre al massimo facendo gol e assist. Il sogno di ogni allenatore da salotto, il sogno di ogni ragazzo.
Da lì poi parte la sua carriera, nel 2004 faccio il quarto superiore e Reyes viene acquistato dall’Arsenal di Arsene Wenger che nel 2006 trascinerà fino alla finale di Champions League. Un calciatore totale, forse un po’ fragile fisicamente, ma in grado di fare la differenza grazie alla sua visione di gioco. Tanto che l’anno dopo arriva addirittura la chiamata del Real Madrid. Intanto vado avanti negli studi all’Università e il tempo per Championship Manager non c’è più a Fifa però che si prenda l’Atletico Madrid, il Benfica o il Siviglia Reyes continua ad essere pedina indiscutibile.
La sua carriera subisce una involuzione che lo allontana dai top club europei, ma proprio in quel momento Reyes diventa ancora più decisivo. Con il Siviglia vince tre Europa League di fila, che si vanno ad aggiungere a quella vinta qualche anno prima con i colchoneros. Un record che lo porta ad essere il calciatore ad aver vinto più volte la competizione insieme a Beto, Gameiro e Vitolo.
Fino ad arrivare a oggi, quando dalla radio in macchina sento l’annuncio di Fabio Caressa. José Antonio Reyes è morto, un incidente stradale nella notte gli è stato fatale. In quel momento il pensiero torna indietro, a quei banchi di scuola dove il suo nome era sempre tra i più gettonati. Il pensiero torna indietro a quei gol meravigliosi, a quel calciatore eterno incompiuto perché troppo fragile e difficile da posizionare in campo. A quel calciatore a un certo punto diventato scomodo perché paradossalmente troppo duttile.
E questo è quello che non capirà mai chi non è appassionato di calcio. Che chi ama questo splendido sport si lega a questi personaggi, perché magari lega alle loro gesta qualcosa che è accaduto nella vita personale. Prendete Gigi Buffon. Firmò per la Juventus nell’estate del 2001 quando io mi apprestavo a frequentare il secondo liceo. Ha lasciato la Juventus nell’estate del 2018, quella del mio ottavo anno di lavoro, quinto anno di vita lontano dai genitori, secondo anno di vita lontano dalla città dove sono nato.
Nel mezzo è successo di tutto e a quel tutto si legano le parate decisive di Gigi. Quella del Mondiale del 2006 sul colpo di testa di Zidane che mi riporta indietro a quell’abbraccio eterno dopo il rigore di Grosso con il mio caro amico Giuliano, uno degli abbracci più lunghi della mia vita. Quella splendida contro il Cagliari su Bianco, che pochi ricorderanno ma che fu una delle sue più belle, e che mi riporta indietro al mio primo grande amore. E anche quella zozza e infame sul gol di Muntari, un metro dentro la porta, che arrivava poco dopo la morte di mio padre e poco dopo il mio terzo intervento al cuore.
Perché i calciatori sono e rimarranno, il più delle volte, degli sconosciuti, ma per molti hanno significato qualcosa. Hanno rappresentato una fase della nostra vita, si sono resi protagonisti delle giornate che hanno scritto le pagine del libro che racconta la nostra esistenza.
E all’improvviso salgono i pensieri. All’improvviso penso che Reyes aveva solo 3 anni più di me, penso che al posto suo ci poteva essere chiunque altro di noi. Penso a come è strana la vita, a come a volte ti fai un mazzo tutti i giorni per anni per raggiungere l’eccellenza e quando ci riesci basta un minuto, un secondo per spazzare via tutto. Per cancellarti dal mondo. Per cancellarti come se non avessi fatto niente.
Io però non ti dimenticherò Perla di Utrera. Non dimenticherò i tuoi 100 gol precisi in partite ufficiali. Non dimenticherò il tuo viso scanzonato da bravo ragazzo. Non dimenticherò quel ciuffo che andava tanto di moda e che tutti ci eravamo fatti ai tempi delle superiori. Non dimenticherò quel tuo sinistro dolce e vellutato. Ma non dimenticherò soprattutto che eri un ragazzo come noi, venuto dal niente e diventato noto in tutto il mondo per il tuo talento.
Perché non si può morire a 35 anni,
non si può morire così,
non è giusto.
Riposa in pace
Matteo Fantozzi